Musica e Storia Sociale dalle Rivoluzione Francese a Oggi

Franco Cardini (Professor Emeritus ISUS/SNS)
Giancarlo Riccio (writer, journalist and music critic for Corriere della Sera)

Se oggi è possibile concepire la musica come un linguaggio internazionale, una koinè dièlektos che si esprime sia pure in infinite varianti etniche e socioculturali,  ciò è accaduto si può dire solo a partire dall’ultimo secolo ma sulla base di una dinamica sviluppatasi non deterministicamente bensì per successive mutazioni e innovazioni, acquisizioni e selezioni alle quali molto hanno contribuito i processi cognitivi propri delle scienze umane e le loro applicazioni sia melodiche, sia strumentalistiche. 

In altri termini, la storia della musica ha seguito la parabola dinamica di quella socioeconomica e socioculturale: passando progressivamente al primo livello da un mondo caratterizzato da sistemi “a compartimenti stagni” a un’economia-mondo secondo quello che è stato denominato “processo di globalizzazione” (o “mondializzazione” (che ha imposto l’egemonia della civiltà occidentale relegando le altre a più o meno importanti “culture di nicchia”); e al secondo da una società stratificata secondo il sistema tradizionale “dei tre ordini” (il “primo stato”, l’ auctoritas della preghiera e della contemplazione; il “secondo stato”, la potestas del governo, delle leggi e delle armi; il “terzo stato”, l’abundantia della produzione, del commercio e del consumo dei beni) a una – quella occidentale moderna – caratterizzata dal primato dell’individualismo e da una nuova gerarchizzazione di valori che pone al primo posto l’economia e la finanza, al secondo la scienza e la tecnologia, al terzo la politica e la religione, secondo una scala gerarchica fondata sulla ricchezza e sul piacere. Nel mondo del passaggio da quello che dal Tre-Quattrocento si è definito “medioevo”  all’età detta “moderna”, al concetto teosociologico di Publicum Bonum si è andato sostituendo quello dello “stato di diritto” fondato sul contratto sociale, sul consenso e quindi sul sistema di organizzazione decisionale di “maggioranze” stabilite da sistemi immanentistici che prescindevano in pratica dalla Grazie divina

La grande trasformazione si è avviata nell’Europa dei secoli XII-XIII e d è maturata nel secolo XVI, quello delle scoperte e delle invenzioni che hanno comportato il “processo di secolarizzazione”, vale a dire al perdita del senso trascendente della centralità divina sostituita da quello immanente dell’eccellenza fondata sul genio umano e sulla forza ed espresso dal concetto dell’”uomo faustiano”. Tutto ciò ha comportato un paradosso: i secoli del predominio dell’Occidente cristiano sul mondo, tra XVI e XVIII secolo, si sono andati accompagnando alla progressiva decristianizzazione della società egemone. La Rivoluzione francese, momento di metabolizzazione del potere assolutistico di diritto divino in potere – inteso come “naturalistico” – dei popoli e delle nazioni, è stato il punto d’arrivo delle rivoluzioni precedenti (la  glorious revolution britannica, la Rivoluzione statunitense americana) e il modello di un processo di mimesi-assimilazione per qualunque altre culture che recava in sé il contraddittorio conflitto tra etnocentrismo e democratizzazione cosmopolitica e tra spirito religioso d’avvìo e dinamica secolarizzatrice.   

Non è in questa sede possibile seguire questa complessa dinamica nei dettagli per quanto riguarda la genesi dei vari generi musicali, sia vocali sia strumentali. Per esempio, secondo al teoria di Robert Haas, la tecnica del “canto solistico accompagnato” è nata nel corso del XVI secolo in connessione con i “pezzi scenici” pastorali e mitologici, come negli “intermedii fiorentini” di fine secolo, nelle prime “opere” (Peri, Caccini), nei “madrigali solistici” (Luzzaschi, Caccini), infine nel  Ballet de Cour che incarna l’assolutismo reale francese fino ai primi del XVII secolo. 

La musica barocca, che innerva progressivamente lo sviluppo di questi generi  fino ad accompagnare la vita del sovrano e della corte nelle varie fasi giornaliere (sveglia, vestizione, caccia, banchetto, riposo)  sacralizza la persona regia e il suo “paradiso” di palazzi e  di giardini mentre, in puntuale parallelo,  la musica sacra secondo i dettami del Concilio di Trento si chiude sempre di più nell’universo della liturgia e dei sacri edifici:  viceversa, come appare chiaro da Bach a Wagner, è la società civile protestante a imporre una Sacralità nuova, cristiana di base ma teistica nella sostanza, che giungerà fino alla Kunstreligion, termine usato alla fine del XIX secolo per riferirsi all’arte come religione, in particolare alla musica, ma anche a qualsiasi arte sacralizzata,  compresa, a partire dalla Germania del tardo Settecento – l’educazione fisica e la mistica della bellezza, dell’armonia  e dell’agilità “eroiche” come parte qualificata della Weltanschauung classica e del nascente romanticismo (la mistica delle ascese montane, ispirata al Lied Über allen Gipfeln di Goethe. 

Sempre di Goethe, peraltro, va considerato con attenzione il florilegio di pensieri raccolto col titolo Sulla musica e pubblicato dalle Edizioni Studio Tesi nel 1992 con introduzione di Giovanni Insom. 

Tutto ciò, come ben ha dimostrato George Mosse nel saggio La nazionalizzazione delle masse, non fu per nulla estraneo alla nascita del nazionalsocialismo attraverso al mediazione di esperienze come quella dei Wandervogel: senza che né il neoclassiciasmo, né il naturalismo, né il romanticismo, né i Wandervogel siano deterministicamente responsabili della Weltanschauung nazionalsocialista.

Della sacralizzazione della musica fino  al suo irrazionale predominio sulla ragione (e torna il “demonico” goethiano…) è testimone Theodor W. Adorno, Beethoven. Filosofia della musica, Einaudi, 2001, p. 128: «In Beethoven ho imparato, tutte le volte che qualcosa mi sembra sbagliato, insensato, debole, a dare tutto il vantaggio a lui e cercare in me la colpa».

Ma quella che abbiamo or ora delineato è una delle due strade assunte dal meanstream della cultura europea moderna nel corso del XVIII secolo, quella delle corti regali e aristocratiche ben esemplificate, ad esempio, anche dalla presenza di Giovanni Paisiello e di Domenico Cimarosa alla corte sanpetroburghese di Caterina II, dove trionfò nel 1782 quel Barbiere di Siviglia ispirato alla trilogia del Beaumarchais che suscitò peraltro anche commenti ostili e preoccupati per il suo “contenuto sovversivo”, come era successo a Da Ponte e a Mozart alla corte viennese del riformatore illuminato Giuseppe II.

D’altronde i tempi stavano cambiando, come del resto scriveva allarmata la stessa Maria Antonietta regina di Francia al suo imperiale fratello Giuseppe. E Mozart, se coglieva divertito gli spunti impertinenti del Figaro di Beaumarchais (“Se vuol ballare, signor contino…”, che si potrebbe anche intendere come un anticipo macabramente visionario del Les aristos à la lanterne del Ça ira), avrebbe poi, nella Zauberflöte, darto libera, solennissima voce alle istanze razionaliste, filantropiche e cosmopolitiche della philosophie massonica. 

Con Mozart si pone la domanda di quanto l’arte possa contribuire allo sviluppo di  concetti quali la  libertà, l’uguaglianza e la fratellanza:  in questo senso restano esemplari le sonate KV 423 e 424, che verranno spiegate al pubblico. !”)

Il Nostro Amadeus era imbevuto di pulsioni e passioni rivoluzionarie forse sollecitate dal famoso calcio ricevuto (e proprio nel suo “chitarrino”) alla corte del principe-arcivescovo di Salisburgo dal conte D’Arco: esse  sarebbero sfociate – altrove – nel 1789. Egli ne fu precursore, nella sua arte, ma non ne assistette al trionfo: morì nel 1791, mentre la sorella del suo imperatore sedeva ancora – sia pure per poco – sull’ormai traballante trono di Francia.  

D’altronde la corona imperiale asburgica, pur nelle splendide prove “dispotistico-illuminate”di Maria Teresa, non aveva mai largheggiato in concessioni ai sudditi: né del resto ne aveva avuto bisogno, data la distanza che correva tra i Buon Governo di Maria Teresa e il disordinato scempio amministrativo di Luigi XV e poi di Luigi XVI. Il Kaiser Giuseppe e il suo Kapellmeister convissero felicemente e quietamente nel decennio 1780-1790 (“Troppe note, Herr Kapellmeister…”; “Indicatemi quelle superflue, Maiestät !”). 

L’imperatore incarnò il vero Zeitgeist, circondandosi a Corte di collaboratori eccellenti  e favorendo le avanguardie culturali e artistiche più ardite e visionarie, fra cui il Nostro. Nel diritto penale, per esempio, Giuseppe II poté abbeverarsi alla fonte giusnaturalista e filantropica del marchese Cesare Beccaria, le idee del quale furono tradotte in leggi contro la tortura giudiziaria e la condanna capitale, entrambe abolite dal granduca di Toscana Pietro Leopoldo, fratello di Giuseppe II e a sua volta futuro sacro romano imperatore, proprio nel medesimo torno di tempo nel quale i filantropici e democratici rivoluzionari di Parigi, al contrario, introducevano un indiscriminato uso delle decapitazioni sommarie e, grazie a una geniale macchina, perfino “umanitarie e “progressiste”. 

Alla Rivoluzione francese provvide pochi anni dopo a conferire un senso storico un altro Zeitgeist, al quale Beethoven avrebbe dedicato la III Sinfonia “Eroica”, salvo poi stracciarne la dedica quando il nuovo Demiurgo si autoincoronò a sua volta imperatore.

D’altronde, gli eventi francesi ed europei tra 1789 e 1815 furono davvero travolgenti e innovativi. Generalmente i manuali di storia della musica pubblicati in Italia, giunti a narrare le vicende musicali dell’ultimo decennio del secolo XVIII, preferiscono saltare – a piedi pari – l’avvento della Rivoluzione francese, limitandosi a considerare le ultime composizioni di Mozart e le prime di Beethoven.

Si tratta di un periodo che, grosso modo, va da Luigi XVI fino alla investitura di Napoleone Bonaparte a primo Console della Repubblica francese.

Questa grossa lacuna della musicologia italiana è stata in parte attenuata dai contributi di Giorgio Pestelli e di Rossana Dalmonte che hanno posto l’esigenza di “ripensare e stimolare un approfondimento della produzione musicale della Rivoluzione francese”.

La musica della Rivoluzione può essere intesa come strumento di lotta per le conquiste politiche e sociali e come musica “nuova”, “libera”, partecipe alla liberazione dell’uomo da qualsiasi forma di tirannide.
“Sarebbe eccessiva limitazione – scrive Giorgio Pestelli – ridurre l’influenza della Rivoluzione francese sulla musica solo sul piano funzionale; anche il linguaggio musicale in sé non è passato invano”.

Il primo, fenomeno manifesto è lo straordinario salto in avanti compiuto dagli strumenti a fiato per progresso tecnico e varietà di impiego. Musicisti come Gossec, Cherubini, Catel, Rode e Kreutzer, raccolti intorno al nucleo della banda della Guardia Nazionale di Parigi, fondano il “Magazine National de Musique” con il compito di diffondere ogni mese inni, canzoni, cantate per coro e banda, marce e ouvertures che venivano usate per feste e cerimonie che avevano luogo nelle città della Francia.

Una funzione importantissima per la creazione e lo sviluppo delle istituzioni musicali del periodo rivoluzionario spetta alla Musique de la Garde Nationale fondata all’indomani della presa della Bastiglia da Bernard Sarrette (1765-1858) e da François Joseph Gossec (1734 -1829).

I componenti di questo complesso formato da 78 musicisti di riconosciuto talento presentarono, il 7 ottobre 1791, alla municipalità di Parigi, il progetto della istituzione di una “scuola di musica che fornisse dei soggetti a tutti (…)”.

Dovremmo forse arrestarci qui: ma forniamo tuttavia, in estrema sintesi vista la varietà e la ricchezza della materia, qualche dritta “a volo d’uccello” a proposito del XIX secolo. Nell’arco di una conversazione come questa, non potremo andar oltre. 

Tra il 1750 ed il 1850 la musica classica occidentale si espresse in forme sempre più ricche ed elaborate, sia in campo strumentale, uno straordinario sviluppo ebbe la forma della sinfonia, che in campo operistico, sfruttando sempre più diffusamente le possibilità espressive fornite dal sistema armonico e tonale costruito nei secoli precedenti.

All’inizio del secolo giganteggia la figura di Ludwig van Beethoven (1770-1827), testimone dell’eredità di Mozart e dei compositori classici coevi, per arrivare a trasfigurare le forme musicali canoniche, soprattutto la sinfonia, la sonata, il concerto ed il quartetto d’archi, creando al contempo il concetto di musica assoluta, cioè svincolata dalle funzioni sociali cui era stata fino ad allora subordinata. Con Beethoven si assiste alla nascita della figura del compositore/artista, contrapposta a quella, in precedenza prevalente, del musicista/artigiano. Le nove sinfonie di Beethoven ebbero tale risonanza da promuovere la forma della sinfonia come la regina tra le forme musicali, al punto che molti dei musicisti venuti dopo di lui temevano di misurarsi con essa. Ciò nonostante, compositori come Johannes Brahms, Anton Bruckner e Gustav Mahler l’affrontarono con risultati così notevoli da far parlare di “Stagione del grande sinfonismo tedesco”.

In Beethoven si trovano le prime manifestazioni del romanticismo musicale, molti protagonisti del quale furono di area germanica e austriaca, come Weber, Schubert, Mendelssohn e Schumann. In Francia operavano invece Berlioz e il polacco Chopin. Emerge in questo periodo anche la figura del musicista virtuoso, che ha in Franz Liszt e Niccolò Paganini i due esempi più famosi e celebrati.

L’Ottocento è anche il secolo della grande stagione operistica italiana, che ha come protagonisti Gioachino Rossini (1792-1868), Vincenzo Bellini (1801-1835), Gaetano Donizetti (1797-1848), Giuseppe Verdi (1813-1901) e, a cavallo del secolo seguente, Giacomo Puccini (1858-1924). La tradizione operistica italiana continua ad esaltare il ruolo del canto che, sciolto dall’eloquenza dell’opera settecentesca diviene momento lirico, pura espressione dell’anima. Nel corso del secolo tuttavia essa assorbe progressivamente aspetti dell’opera francese, da sempre attenta all’aspetto visivo e a partire dalla seconda metà del secolo legata all’estetica del naturalismo. Quanto all’orchestra, da semplice accompagnamento del canto si evolve fino a diventare, nelle ultime opere di Verdi e successivamente in Puccini, un’orchestra sinfonica.

Alla fine del secolo la ricerca di nuove forme e di nuove sonorità porta alla crisi del sistema tonale, espressa nel famoso preludio del Tristano e Isotta di Richard Wagner del 1865, che contiene passaggi armonicamente enigmatici, non interpretabili alla luce delle regole in vigore in quegli anni.

Con Wagner e dopo Wagner si apre un’età nuova e per molti versi sorprendente: musica tonale, musica dodecafonica, musica “etnica”, nuove forme artistiche d’origine “popolare” o “subalterna. Si dirà che Mozart sembra quasi aver previsto e preconizzato qualcosa, che Puccini avrebbe intuito e osato molto portando sul palcoscenico operistico il western americano e insinuando dei passaggi jazzistici nella Trurandot, che Katchaturian avrebbe rinverdito i fasti dell’Eroica beethoveniana e il fasto esotitico della musica tradizionale russa con la sua maestosa eurasianicità scrivendo il commosso e commovente Poema a Stalin, che Brassens o Battiato possono ormai dirsi “classici”. Ma questa, direbbe il vecchio Kipling, è un’altra storia.

Firenze, Merano, Salisburgo, dicembre 2022.

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